La Regione porta nei centri storici
i palazzi dello shopping
Premi urbanistici per chi recupera vecchi edifici. Ecco la nuova legge sul commercio
VENEZIA — L’idea, racconta, le è venuta durante un viaggio ad Anversa, nella Fiandre. Quasi un’illuminazione, per l’assessore al Commercio Isi Coppola: «Un vecchio palazzo nel cuore della città, abbandonato da anni, è stato recuperato e trasformato in un centro commerciale. Antico fuori. Moderno dentro. Scacco matto: si è riportato a nuova vita un rudere, si è vivacizzato un quartiere, si è fatta contenta la grande distribuzione e pure i cittadini, che hanno un servizio in più sotto casa. Mi sono detta: perché no? Perché non in Veneto? ». Un paio di domande dalla risposta facile in teoria ma assai più complicata in pratica, che sono diventate il punto di partenza della nuova legge sul Commercio, attesa da otto anni, uno dei Grandi Piani, con quello Socio Sanitario e quelli sull’Energia, sui Rifiuti e sul Turismo, chiamati a posare i binari su cui s’instraderà il Veneto di qui al 2020. Gli esperti ci hanno lavorato per un anno ed ora la legge, già condivisa con le categorie, è pronta per i passaggi in giunta ed in consiglio (mancano solo alcuni incontri per le limature finali).La filosofia di fondo è chiara: fermare le cattedrali nel deserto e riportare il commercio nei centri storici. A cominciare dalla grande distribuzione. «Con tre obiettivi - spiega la Coppola - rivitalizzare le città, salvando i campi dalla speculazione, migliorare la qualità della vita dei veneti, senza che siano costretti a macinare chilometri per comprare un litro di latte, e semplificare la normativa che oggi lascia troppi spazi a scappatoie e ricorsi vari, anche con la creazione di uno sportello unico dedicato». Si tratta di superare la legge Conta del 2004 (il successore di Giancarlo Conta, Fabio Gava, provò a metterci mano tre anni più tardi ma il tentativo naufragò malamente), una legge scritta sull’ossatura delle norme statali che incentivavano la costruzione delle città dello shopping in zona industriale. Con vantaggi per tutti: la grande distribuzione, che si allargava a macchia d’olio, i costruttori, che innalzavano colossi da migliaia di metri cubi, e i Comuni, che incassavano oneri di urbanizzazione capaci di trasformare il volto di un paese intero, tra palestre da sogno e rotatorie prêt-à-porter. Il limite al furore dello shopping era dato dal contingentamento delle superfici commerciali autorizzabili: 113 mila metri quadri in 3 anni.
Ne è bastato uno perché andassero bruciati tutti (e i «progetti strategici» autorizzati con programmazione negoziata, come Ikea, sono fuori dal conteggio, così come le strutture con «grande fabbisogno di superficie di vendita», ossia i concessionari auto e nautici, i rivenditori di mobili e materiali edili). Questo per la grande distribuzione. Anche per la media, però, esisteva un limite, dal calcolo piuttosto cervellotico, basato sul rapporto con gli esercizi di vicinato, ma poco importa perché dal 2010 tutti i lacci sono stati spezzati dalla direttiva Bolkenstein, che nel nome della concorrenza cara all’Europa impedisce alla Regione di porre qualunque tipo di limite quantitativo alle nuove aperture, fossero anche città artificiali più grandi del Comune che le ospitano (l’unica restrizione che rimane è la tutela dell’interesse pubblico). L’arma usata finora per regolare il settore, dunque, non è stata spuntata. Non esiste proprio più. «Per invertire la tendenza faremo quindi leva sulle norme urbanistiche - spiega la Coppola - ed in questo senso sarà fondamentale la collaborazione con il vice presidente Zorzato, che guida il referato. La grande distribuzione che aprirà in città, recuperando palazzi ed uffici pubblici abbandonati, o magari vecchie caserme, sedi delle Poste o banche, sarà premiata con aumenti delle superfici di vendita, riduzioni dei vincoli urbanistici, come ad esempio i parcheggi, intese privilegiate con le soprintendenze».
E’ un ritorno al futuro, se si vuole, perché il modello cui ci si ispira è quello della Rinascente, di Coin e della Standa ma anche, in tempi più recenti, di Zara o della Despar. Viceversa, chi si ostinerà ad aprire lontano dal centro storico, fedele al modello Usa, «verrà penalizzato con prescrizioni sempre più stringenti, fino al limite dell’impossibile se il progetto prevede il consumo di nuove aree agricole». Unica eccezione: il recupero dei capannoni inutilizzati, come tanti ce ne sono nelle campagne venete. «Un altro obiettivo - chiude la Coppola - è superare la conflittualità tra grande e piccola distribuzione alleandole nella sfida del marketing urbano. I negozi dei centri storici devono collaborare con gli iper, specie quelli che negli anni sono stati inglobati dalla città in espansione come il Centro Giotto a Padova, per rilanciare il commercio in tutte le sue forme, anche attraverso l’abbellimento delle vie o l’allestimentodi manifestazioni che convincano la gente ad uscire di casa ». L’alternativa, è aspettare i soldi pubblici. Ma con i chiari di luna che ci sono, campa cavallo.
Marco Bonet
17 aprile 2012 (modifica il 18 aprile 2012)© RIPRODUZIONE RISERVATA
17 aprile 2012 (modifica il 18 aprile 2012)© RIPRODUZIONE RISERVATA
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